scritta bianca 'a fine tunnel' sfondo verde con teschietti immagini di panni stesi e di una di lampada a forma di papera in dissolvenza sullo sfondo scritta 'a fine tunnel', in corsivo
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GUarDo Le stELLE Mi soNo rimASte soLo quelle.
---{ venerdì, giugno 05, 2009 }---

{Senti, ma che tipo di festa è, non è che alle dieci state tutti a ballare in girotondo, io sto buttato in un angolo, no... ah no: se si balla non vengo. No, no... allora non vengo. Che dici vengo? Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?}

L’estate si avvicina ad ampi balzi, diminuisce l’appetito, aumenta la fotofobia degli occhietti delicati, ci si prepara e si torna dai festival. Quelli altrui. Non il mio. Quest’anno lo Shagoo infatti non si farà.

Più che optare per un abbandono definitivo, mi auspico che festival e organizzatori si siano presi un anno sabbatico, scoraggiati temporaneamente dall’atmosfera globale da shock petrolifero del ’73.

Quest’anno lasciamo il pubblico a rimuginare solo soletto sulla mancanza dello Shagoo e a percepire finalmente il lieve senso di nostalgia e vuoto che genera questa mancanza. Sì, perché quando ci si tira fuori dal mercato così a tradimento, ci si può anche prendere il lusso della presunzione di essere rimpianti dalla piccola collettività che aveva fatto del festival un appuntamento abituale.

Nel resto dell’Italia le iniziative non sono mica scomparse, anzi sono ben numerose rispetto ad un tempo. Le realtà commerciali si stanno appropriando con forza spigliata SIA della proposta mainstream SIA della controproposta underground indipendente CONTEMPORANEAMENTE. La gente però non si sente presa per il culo e non percepisce questa tensione concettuale, perciò in realtà forse nessuno sentirà la mancanza dello Shagoo.

Ad esempio un MIAMI dà tutto: lì essere poser non è una condizione negativa, è condiviso ed accettato, è sintomo di alta ironia. Il Miami è l’evento dei vincenti che fingono di essere perdenti, perché in quello spazio condiviso non è necessario raccontare una passione profonda e coltivata per rapportarsi e comunicare con successo con gli altri. Basta scendere in strada e ballare ballare ballare, blandi nei simboli, blandi nei significati di questi simboli.

L’assimilazione dei dischi, la capacità di approfondire aspetti secondo percorsi sistematici, come in una spirale positivamente discendente la cui parte finale è rivolta verso il tentativo di cogliere l’essenza di un movimento, di un’etichetta, di un gruppo di persone, è inutile fatica. Se proprio devi dimostrare un qualche spessore intellettuale sappi che in una notte il tuo hard disk si può riempire di 800 GB di mp3, che saranno sempre più di quanti un appassionato di medio livello riesce ad accumulare con i metodi tradizionali degli acquisti fuori e dentro il circuito dei concerti nel giro di un decennio.

Naturalmente non siamo dentro 1984: una determinata dimensione indipendente non è ancora morta. Come per il punk e le successive evoluzioni dell’hardcore essa è scesa di nuovo alla chetichella nel sottoscala.

L’emo è ormai patrimonio delle culture giovanili più ridicole? E lei si nasconde per essere di nuovo preziosa, per insegnare a chi vuole ascoltare, per usare col contagocce la democraticità della Rete mescolando nuove trovate ad aspetti della vecchia scuola che sono sopravvissuti alla prova del tempo e sono finalmente amati.

Un’irruenza semplice e la dimensione amicale sembrano le priorità del progetto Lago Morto, band punk hc , di hc dritto dritto. In questo 2009 Lago Morto va ricordato per la particolarità di un tour di 14 giorni dentro location insolite (pizzerie, gelaterie, negozi di dvd, lavanderie) della sola zona di Vittorio Veneto, innestando su elementi di uno spirito originario una proposta nuova, nel tentativo di attrarre gente normale che desidera osservare da vicino il rumore di uno show così schietto.

Questo sulla carta. Dal vivo l’esperienza Lago Morto la assimilo in modo leggermente diverso. Osservo il pogo a pochi centimetri da me, dentro una pizzeria. I gestori spinano birre rassegnati, senza accorgersi che il loro giro d’affari sta subendo un’impennata grazie a questi punk che non si comportano come i punk, e da bravi imprenditori indefessi scuotono la testa senza far trasparire un filo di curiosità che sia uno.

Occasioni come queste fanno ormai parte raramente della mia agenda e mi chiedo se è questo il motivo per cui accetto con benevolenza questo tentativo di recupero di uno spirito che sembra esistere solo come proiezione mentale nelle singole menti.

Complici N. che mi istiga con commenti sarcastici sulla “scena” e un televisore lasciato deliberatamente acceso sulla programmazione corrente di italia uno, la situazione viene percepita in tutta la sua ingenuità un po’ costruita. Ritrovo però le atmosfere di quel bel pubblico di tutti i concerti nella biblioteca di Aidussina. E in fondo mi basta.

Ma tornando a noi lo Shagoo non si farà, dicevo. Non ci crediamo neppure noi che a conti fatti sono passati 6 anni dalla prima edizione gioiosa e scalcagnata.

Lasciarsi andare al tono epico è del tutto fuori luogo per una manifestazione come la nostra, però quando si parla fra noi di questa creaturina in stand-by non riusciamo a trattenerci dallo scherzarci su. Abbiamo visto dei ragazzini crescere, abbiamo visto delle persone che risiedono lontane dallo scomodo nord-est che si sono avventurate oltre Mestre per giungere nello scomodo Friuli per piantare le tende e seguire tutte e 6 le edizione del nostro piccolo festival anno dopo anno, sedendosi ad un certo punto dalla stessa parte del bancone di noi organizzatori, entrando in cucina la mattina in pigiama grattandosi la testa e spalancando il grande frigo industriale come se fosse quello di casa loro.

Se proprio si vuol continuare sulla falsariga di questo tono di boria scherzosa, aggiungiamo il fatto che ormai in questo periodo è abitudine dare un’occhiata alle scalette di festival estivi ben più blasonati del nostro e constatare con ironia compiaciuta che i programmi offerti, in linea di massima, non sono altro che un mix di ri-proposte in ritardo di band che già avevano calcato il nostro palco o quello di festival a cui ci sentiamo più attitudinalmente vicini, come ad esempio l’Antimtvday di Bologna. Chissà se almeno loro resisteranno quest’anno.

Guardo un po’ di MTV, scorro con gli occhi qualche Webzine italiana, leggo qualche blog collegato e posso comprendere come sia facile per un’élite appropriarsi di concetti così sfuggevoli. In fondo basta arrivare per primi e avere la disonestà intellettuale di metterci la mano sopra e dire questo è mio e ha questa forma esclusiva. Sono Carlo Pastore e questo è il do it yourself.

È difficile ribellarsi a tale smacco e a ribattere su un tema così sfaccettato: ci vuole esercizio, ci vuole gente che sappia rispondere coniugando nozioni concrete e appeal comunicativo per non annoiare e non far sembrare tutto un retaggio passato.

La tematica del do it yourself necessiterebbe di un’analisi continua e sistematica non tanto per autocelebrazione, quanto per abituare la gente a pensare e a percepire la contraddizione in termini di cui si parlava prima, di una proposta e controproposta in mano a soggetti commerciali che non dovrebbero per definizione avere nulla a che fare con tutto questo.

L’attitudine è un concetto impegnativo da spiegare, a me non sembra neppure adatto il termine attitudine per la supponenza implicita che trasmette. I confini semantici sono per fortuna sfuggevoli quanto basta per essere oggetto di ridefinizione dinamica che genera innovazione. Se poi ci si ritrova dentro ad una situazione organizzativa che necessita di questa cosa indefinita, ma innegabilmente presente e pronta a essere plasmata, tale situazione ti priva automaticamente della distanza di analisi giusta per azzardare descrizioni.

Ma Carlo Pastore si appropria del do it yourself edulcorandolo, quindi mi sembra doveroso azzardare una descrizione che riguardi il mio rapporto con gli eventi diy dove il valore dell’assimilazione sia cruciale.

Si può parlare in questo caso di teorema dimostrato per negazione, o meglio sottrazione? Amo descrivere lo Shagoo come un festival in cui innanzitutto si ragiona per sottrazione: non siamo in grado di definire cosa questo festival dovrebbe significare e trasmettere, ma siamo in grado di individuare bene in qualità di fruitori e appassionati di musica e manifestazioni, cosa non ci piace dei festival che non ci piacciono.

Ragionare per sottrazione in questo caso significa andare avanti sapendo ciò che NON vogliamo che lo Shagoo diventi. Con il passare degli anni questa idea dai deboli confini si è rivelata la scelta vincente perché ha permesso alle diverse anime che compongono il comitato organizzatore di creare qualcosa in cui ci fosse uno spazio ragionato sia per le esigenze degli ascoltatori, sia per quelle dei musicisti, sfruttando la forza del nostro comitato che sta proprio in questa eterogeneità di queste competenze.

In questo non avere una direzione precisa, lo Shagoo ha preso inevitabilmente una direzione. Quella importantissima dell’amicizia e dei blandi inevitabili compromessi. Si parte dalle piccole cose: si cerca di mettere cura in tutto quello che si fa, si cerca prima di tutto di accogliere il pubblico e le band con un sorriso, con qualche attenzione inaspettata in più senza fare i leccaculo, si cerca di sfruttare al massimo la rete amicale perché la frequentazione continua di festival di questa cosa evanescente e autogestita detta anche “scena” ci ha permesso di entrare in contatto con persone davvero in gamba ed appassionate , che sarebbe stato difficile intercettare con una gestione più professionale e professionistica del festival.

L’empatia su cui si è provato a lavorare, prevede uno scambio biunivoco fra due parti. Per il nostro festival questo scambio biunivoco è stato essenziale ed evidente. Si è concretizzato soprattutto nei primi anni, quando il festival era in una fase embrionale, in un piccolo fatto di grande rilevanza: ci sono state decine e decine di band che di fronte a una laconica mail di presentazione hanno deciso di rischiare e di accontentarsi di rimborsi simbolici. Un gesto forse piccolo se fatto rientrare nel “rischio di impresa” che corrono abitualmente i singoli gruppi, ma se moltiplicato per più cervelli, ecco che si comprende dove ha origine il vero do it yourself e perché riveste significati fondamentali nella vita di una comunità di nicchia ma non troppo, che tenta di fare il possibile per trasferire determinati principi etici nati dal basso nel mondo dei “normali” .

In tutto questo ciclo virtuoso apparentemente mancava un feedback strutturato, una risposta concreta del pubblico che ci facesse capire in qualche modo che questo nostro vagare per tentativi ed errori alla ricerca della dimensione ottimale, in cui convergessero la felicità di organizzatori, dello staff delle band, dei critici e pubblico, fosse apprezzato.

Quando il rito è ormai consolidato, lo sono anche le aspettative, ma quando il rito dell’appuntamento di fine estate con cadenza annuale è venuto a mancare per intoppi burocratici gravi le voci di protesta si sono levate, anche numerose per fortuna.

L’unica “proposta” che abbiamo voluto introdurre e che è diventato un po’ anche il marchio di fabbrica che si fa ricordare al di là della musica è stata quella di offrire un menu basato esclusivamente su piatti vegani (che quindi non contengono né carne, né pesce, né alcun tipo di derivato animale). Questo non certo per proselitismo ma per mera scelta pratica naturale: perché io vegetariana che organizzo un festival, che devo lavorare in cucina per 3 giorni di fila, gratis, devo anche costringermi a maneggiare alimenti che non mi va facciano più parte della mia vita?

Così, senza fanatismi di sorta.

I New Year nella penombra dello splendido auditorium di Barcellona cantano solenni e slowcore "The end's not near /It's here / Alleluia, spread the cheer / And watch the millenarians / Throw a party for a thousand years" e gioisco nervosa per come tutto ciò combaci alla perfezione con il mio stato d'animo finalista riguardo soprattutto le tematiche di questo post.

Sento che lo spirito originario, se mai ci è stato, si è perso e che molte cose sono state danneggiate, cancellate, cambiate. La mia parte pessimista sente che sto tagliando ponti senza evolvermi, genero e sono vittima di cambi di equilibrio, soffro quelli di atteggiamento ma poi mi abituo; c'è poi la mia parte ottimista (e le fasi già vissute, analoghe a questa) che mi insegna che quando ritengo che alcune situazioni si sono diluite per sempre, è la volta buona che riemergono per smentirmi e farmi risalire in cima alla collinetta delle montagne russe a percepire di nuovo l'emozione dell'aria in faccia nei saliscendi rendendo più pacato e obiettivo il mio auto-narrarmi.

posted by milo @ 4:15 PM

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